LO SPACCIATORE DI IDEE. ANTONIO E’ TORNATO A CASA……

di Carmelo Bucolo (un Siciliano al Nord)

Antonio Megalizzi è tornato a casa. In una bara. Un dolore straziante per chi è venuto ad attenderlo nel suo ultimo viaggio e che di lui conserverà un ricordo indimenticabile. Perché, all’inizio, chi se ne va resta ovunque. Rimane lì, nell’incavo del cuscino sulla poltrona, negli odori di casa, dentro gli armadi, nel sapore del sugo, nel riflesso del cucchiaio, nelle sagome dei passanti, nel timbro di una voce. I primi tempi, chi non c’è più è più che mai li, a ribadire e ricordare che esiste una ferita crudele e insanabile, tra ieri e oggi. Poi, piano piano, la vita ricomincia, il cuscino riprende la sua forma, le finestre aperte si portano via gli odori, gli armadi si svuotano, gli oggetti ritrovano il loro freddo anonimato, i sapori si confondono e in fondo al tunnel s’intravede una luce. E’ quella dell’amore che non si era mai spenta, ma solo affievolita di fronte all’immane sofferenza. Ora, quella luce, giorno dopo giorno, riprenderà vigore e continuerà in eterno a illuminare la memoria di Antonio. Si possono classificare le persone in base ai criteri più fantasiosi, ma è la morte il vero criterio, ed è lei, la dimensione più intima di tutti i vivi, a separare l’umanità in due ordini così irriducibili che vi è più distanza fra loro che non tra un avvoltoio e una talpa, tra una stella e uno sputo. Fra l’uomo che ha il sentimento della morte e colui che non lo ha si spalanca l’abisso fra due mondi non comunicanti: eppure entrambi muoiono; ma l’uno conosce la sua morte, l’altro la ignora; l’uno muore un solo istante, l’altro non cessa di morire. Ogni volta che diciamo “si muore” diffondiamo la persuasione che la morte riguarda il Si anonimo, sotteso al quale c’è la convinzione “non sono io”. Infatti il Si anonimo è nessuno. Dunque la nostra psiche non sa pensare la propria morte. Sappiamo che si muore, ma non riusciamo a interiorizzare questo pensiero e a farlo nostro come qualcosa che riguarda proprio noi. Anche in presenza di gravi malattie, il cui esito infausto spesso è noto allo stesso paziente, una sorta di pensieri ingannevoli e una danza di cieche speranze distraggono la mente, che, pur sapendo, è incapace di iscrivere la propria morte nell’ambito del proprio vissuto. Anche l’angoscia di morte, spesso dipinta sul volto di chi è nelle prossimità di questo ultimo passo, non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita. Questa è l’angoscia di morte. Il suo tema è l’amore. Ma proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all’amore, questo non si estingue con la morte della persona amata. E non il ricordo, ma la persistenza di questo amore è la vera eternità concessa agli uomini. Non è la morte, infatti, a estinguere l’amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell’amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c’è solo infedeltà. SOLO NELL’AMORE C’E’ ETERNITA’. E non dobbiamo dare al tempo il diritto di seppellire l’amore che ancora ci nutre.