LO SPACCIATORE DI IDEE. FALLIMENTO: NON SCONFITTA MA OPPORTUNITA’

servizio di Carmelo Bucolo ( un Siciliano vero al Nord )

La società di oggi, plasmata sull’arrivismo, sul protagonismo e sul presenzialismo, mal si concilia con la sconfitta e il fallimento. L’emarginazione culturale che colpisce coloro che per mille motivi non hanno raggiunto il loro scopo è qualcosa che spesso va al di là della difficoltà contingente, e può rappresentare un vero e proprio marchio di fabbrica impresso a fuoco sull’autostima del soggetto, ossia sulla considerazione che un individuo ha di se stesso. Anche solo a sentirla nominare, la parola fallimento crea un blocco emotivo e mentale. Il termine, che deriva da “fallo”, cioè errore, richiama il concetto di vagare, abbandonare la retta via, o violare “una norma non conforme alla morale”, sanzionabile socialmente. Di fronte a un evento che ci ha visti perdenti, una delle cose più facili, insensate e controproducenti è quella di demandare il nostro insuccesso alla sfortuna, al collega o a tutto ciò che (per nostra errata convinzione), agendo dall’esterno rimane fuori dal nostro controllo e quindi per questo, da noi difficilmente affrontabile. Insomma, un comodo alibi per coprire le nostre mancanze, le scelte inopportune o inadeguate. Se invece abbiamo il coraggio di ammettere i nostri limiti, affidandoci all’umiltà, un buon modo di reagire è quello di fare outing sui nostri fallimenti. Nel percorso di chiunque il fallimento è dietro l’angolo: un insuccesso lavorativo, scolastico, economico, sportivo; un sogno che non si realizza; la fine di una relazione. Spesso si immagina la vita come un processo lineare, studiare, fare carriera, sposarsi, avere figli, in cui l’incertezza non è contemplata. Ma questo percorso a tappe è innaturale, la società ti obbliga a incasellarti in determinate etichette, e quando compare l’imprevisto, la discontinuità rispetto alla linea retta, arriva la paralisi: paura e senso di colpa. Il fallimento ci fa sentire sbagliati. Ma noi non siamo il riflesso delle nostre cadute. Per combattere il marchio dell’errore, bisogna provare a trasformarlo in un viaggio di scoperta del sé, dei propri limiti e talenti. Sbagliare per imparare, per reinventarsi, per creare qualcosa di nuovo. Il fallimento non è una disfatta senza via d’uscita, ma il punto finale di una serie di errori. Dobbiamo imparare ad alfabetizzarci al rischio perché senza la deviazione dell’errore non ci sarebbe innovazione e progresso. La nostra sembra essere più una cultura schizofrenica del successo: da un lato si elogiano i vincitori, dall’altro, si guarda con sospetto a chi ce l’ha fatta, soprattutto se giovane. Il fallimento, più che un insuccesso, può essere una deviazione da percorsi possibili.