LO SPACCIATORE DI IDEE. MEGLIO PAURA CHE INDIFFERENZA

di Carmelo Bucolo ( un Siciliano Vero al nord )

Il tempo che viviamo è plasmato dall’indifferenza, quel non sentimento che ormai invade la nostra vita e che ci propone una realtà filtrata dal buonismo e perbenismo. Quando la politica non decide e dà l’impressione che nulla potrà mai cambiare perché il conflitto tra le parti mette in ombra il bene comune, quando la scuola, sfiduciata, rinuncia non solo all’educazione ma anche all’istruzione perché troppi sono gli studenti che non capiscono il senso di quello che leggono, quando le imprese e le organizzazioni lavorative e burocratiche comunicano la sensazione di non amare la novità e di preferire la routine, il freddo ingranaggio ben sincronizzato con i movimenti che scandiscono un tempo senza passioni, quando i morti sul lavoro sono consuetudine quotidiana che più non scuote le coscienze e non promuove interventi, quando i vecchi, i malati di mente e quelli terminali sono solo un problema che non suscita neppure commozione, quando lo straniero è solo un estraneo con cui è meglio non avere a che fare, quando persino i giovani devono inghiottire una pillola di ecstasy per provare, almeno al sabato sera, una qualche emozione, allora siamo all’indifferenza, vera patologia del nostro tempo. Quel distacco emozionale tra sé e gli altri, mancanza di interesse per il mondo, alimentata dal desiderio di non essere coinvolti in alcun modo, né in amore né in lotta, né in cooperazione né in competizione, in una società popolata da passanti distratti e noncuranti, affetti dall’indifferenza dell’uomo verso l’uomo, dove ciascuno passa vicino al suo prossimo come si passa vicino al muro. Alla base dell’indifferenza troviamo una speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, un’inerzia in ordine a un produttivo darsi da fare, a cui si aggiungono sovrabbondanza e opulenza come narcotizzanti sociali, noncuranza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia, incomunicabilità, non solo come fatto fisiologico tra generazioni, ma come pratica di vita, dove i ruoli, le posizioni, le maschere sociali prendono il posto dei nostri volti ben protetti e nascosti, perciò inconoscibili. Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma quel genere di solitudine che non è la disperazione, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c’è anima viva in grado di raccoglierlo, e dove, se si dovesse gridare “aiuto”, ciò che ritorna sarebbe solo l’eco del proprio grido. L’indifferenza accompagna i grandi sconvolgimenti che attraversano il pianeta, osservati con il flemmatico distacco di chi è abituato a guardare il mondo attraverso gli schermi. Ciò che vediamo è mediato da una tecnologia amichevole che lo fa sentire lontano, ininfluente, almeno finché non ci riguarda direttamente. La notizia di catastrofi indigna, muove a pietà, provoca un’emozione che è sempre una reazione, mai una azione, ed è subito superata dal flusso perenne di nuove informazioni. Che siano catastrofi naturali ( terremoti, frane, inondazioni ) o morali ( stragi, terrorismo, disastri causati dagli errori o dall’incuria umana) non fa differenza. Ma indifferenza. Con la medesima leggerezza viviamo quest’epoca indifferenti al fatto che le modalità in cui si svolge ed evolve la vita, siano fortemente condizionate dagli effetti dell’azione umana. Un’indifferenza che ha cancellato la paura. Questo perché nel rapido processo di meccanizzazione che investe la cultura, l’uomo è divenuto più ignorante, più disattento, più infelice. In fondo riacquista l’antica umanità che era propria delle origini: la fragilità, la solitudine, la dipendenza dalla natura, incapace di dominarla, come pretendeva la modernità, può solo subirla. Ma l’indifferenza è letale. E’ necessario continuare a temere le catastrofi. Perché solo avendone paura è possibile evitarle.