ENRICO GALEANO: «LA MIA PIÚ GRANDE FONTE D’ISPIRAZIONE, ANCHE PER IL DISCO ENTROPÉ, È IL MONDO SCONFINATO DELLA MUSICA STESSA»

di Stefano Dentice

Consegnato alle stampe dall’etichetta Barly Records (By Encore Music), Entropé è la nuova realizzazione discografica del talentuoso e ardimentoso chitarrista jazz e compositore di origine siciliana Enrico Galeano. L’album prevede nove brani, di cui sei sono composizioni originali frutto della sua creatività, mentre Poinciana (Nat Simon), Transporter (Chris Speed) e Self-Portrait in Three Colors (Charles Mingus) completano la tracklist. Due i valenti compagni di viaggio del chitarrista per questo CD: Stefano Zambon al contrabbasso e Simone Brilli alla batteria. Entropé è un disco improntato su un’interessante commistione che abbraccia la tradizione jazzistica e il contemporary jazz, da cui emerge una profonda ricerca armonica e ritmica che rappresenta il tratto distintivo di questo progetto discografico. Il giovane Enrico Galeano spiega la sua visione della musica, segnatamente del jazz, e la gestazione del suo album.

Ascoltando il tuo disco, fin dalle prime misure, emerge un profondo rispetto per la tradizione jazzistica ma anche uno sguardo e un orecchio volti al jazz contemporaneo. Attraverso quale processo evolutivo sei riuscito a dar vita a questa brillante sintesi stilistica?

«Uno degli aspetti che più mi affascina del jazz è il fatto di non riuscire a delineare dei confini netti tra ciò che è contemporaneo e ciò che può essere considerato tradizionale. La musica del secondo quintetto di Miles Davis, di Keith Jarret, del quartetto di John Coltrane, di Wayne Shorter, Herbie Hancock e molti altri, pur essendo stata registrata più o meno mezzo secolo fa, risuona in me come estremamente contemporanea. Molti degli elementi presenti nella musica del passato sono riutilizzabili nel contemporaneo e suonano nelle orecchie degli ascoltatori come attuali, soprattutto se contestualizzati al mondo musicale di oggi. Detto ciò, credo che il mio gusto personale da ascoltatore rispecchi il mio modo di scrivere musica. Non sono mai stato un ascoltatore selettivo per quel che riguarda i differenti generi musicali. Mi piace molto il jazz come il rock, il pop, la musica popolare, la classica romantica o contemporanea, la New-Wave anni Ottanta, l’hip-hop e la musica elettronica. Tutti questi generi, in maniera differente, influenzano ciò che voglio sentire in un brano che scrivo. Però non posso negare di essere assai curioso relativamente alla scena jazz contemporanea, infatti molto spesso ascolto musicisti ancora in vita e molti di loro sono per me delle influenze importanti sia nel modo di suonare lo strumento sia nello scrivere musica. Non mi riferisco solo ad alcuni capisaldi contemporanei come Kurt Rosenwinkel o Aaron Parks, ma anche ai miei coetanei italiani/europei e oltreoceano: Micah Thomas, Immanuel Wilkins, Pedro Martins, i miei due insegnanti di chitarra, Reinier Baas e Roberto Cecchetto e, last but not least, tutti i miei amici musicisti sono una fonte continua di spunti creativi e di riflessione, perché aprono in me nuovi immaginari musicali che mi lasciano riflettere sul percorso che voglio intraprendere stilisticamente, che sia simile o che si discosti dal loro. Ad ogni modo, non penso di aver seguito un processo specifico per conferire questa caratteristica ai miei brani. Quando scrivo cerco di farlo nella maniera più naturale possibile, con i rischi e i privilegi che appunto questo processo comporta. Amo la tradizione, ma la mia «amante» è la contemporaneità. Diciamo così».

La tracklist del CD consta di nove brani: sei tue composizioni originali e tre perle come Poinciana di Nat Simon, Transporter di Chris Speed e Self-Portrait in Three Colors di Charles Mingus. Inoltre figura anche Intro (To Ahmad), un chiaro omaggio a un genio del piano jazz come Ahmad Jamal. Questi quattro eccezionali jazzisti, dal punto di vista stilistico ed espressivo, quanto influenzano la tua musica?

«Devo dire che tutti questi musicisti, in proporzioni differenti, hanno avuto un’influenza su di me. Ahmad Jamal è stata una scoperta recente che è arrivata con Stefano (Stefano Zambon, ndr) e Simone (Simone Brilli, ndr), infatti piace molto ad entrambi e spesso si è parlato insieme dell’estetica del trio di Jamal, soprattutto in alcuni dischi degli anni Cinquanta come il live At the Pershing (1958), dove la semplicità, il bouncing e la melodia regnano sovrani. Così abbiamo deciso di inserire Poinciana nel nostro repertorio, ricercando quel tipo di flow. Io ero contento del risultato, quindi non potevo non registrarla. Anche Chris Speed ha avuto una notevole influenza su di me, soprattutto per ciò che riguarda la composizione e il suono del suo trio harmony-less con Dave King e Chris Tordini, il disco in cui è contenuta Transporter. Respect For your Toughness, ad esempio, è uno dei miei dischi preferiti degli ultimi anni. L’ho ascoltato veramente tanto. Mingus, invece, è uno dei miei amori a prima vista nel jazz. Ricordo gli anni delle superiori dove non ascoltavo altro che Mingus Ah Um e Mingus Dynasty. Così, visto che volevo registrare un brano in “Solo”, ho scelto Self-Portrait in Three Colors per la genialità melodica e armonica del brano e per il gioco contrappuntistico delle tre linee che compaiono nei tre chorus. Penso, comunque, di avere ancora molto da imparare da tutti loro. Ad esempio, Mingus era un prolifico compositore per larghi organici. Io, invece, non saprei da dove iniziare».

Fra le nove tracce c’è spazio anche per una composizione dedicata alla tua Sicilia: Stromboli. L’incantevole terra sicula è sempre fonte d’ispirazione per te?

«I luoghi, come le persone, a volte sono nuova fonte per idee compositive. E devo dire che ogni volta che torno nella mia terra sento la voglia di allenare il muscolo della creatività. Quindi, in parte, è fonte d’ispirazione. Stromboli, in particolare, nasce anche da un gioco compositivo: ero in vacanza per dieci giorni sull’isola, con una chitarra classica, e dovevo completare un brano al giorno. Questo è stato il primo della serie, scritto appena arrivato, guardando lo spettacolare neck vulcanico Strombolicchio».

Approfondendo la tua concezione musicale, ascoltando l’album Entropé si notano interessanti asperità armoniche e stimolanti modulazioni ritmiche. Questo tuo modo di intendere la composizione deriva da un profondo spirito di ricerca stilistica?

«Il mio modo di scrivere musica è relazionato a ciò che ascolto, anche perché alla fine la mia fonte d’ispirazione più grande è il mondo sconfinato della musica stessa. Non credo di ricercare asperità o modulazioni per ottenere degli effetti, ma suono ciò che mi va per esprimere quello che sento. Sicuramente c’è una ricerca, un processo di studio che mi porta ad assimilare alcune armonie piuttosto che altre. Anche se devo dire che mi sento ancora molto indietro da questo punto di vista, per cui vorrei procedere in maniera più approfondita nell’analisi di diversi linguaggi armonici».

I tuoi valenti compagni di viaggio per questo progetto discografico sono Stefano Zambon al contrabbasso e Simone Brilli alla batteria. Soprattutto per ciò che concerne la registrazione del disco, con loro hai trovato subito il feeling e l’interplay che cercavi?

«Il gruppo esiste da due anni e devo dire che da subito c’è stato un certo feeling tra noi. Questo perché tutti e tre cerchiamo di ascoltarci il più possibile e di connettere le nostre idee musicali le une alle altre. L’interplay è un’abilità complessa che in un gruppo si sviluppa col tempo. Noi ci ritroviamo spesso a suonare insieme, di volta in volta le cose cambiano, ci si ascolta meglio, si reagisce diversamente. È un po’ come conoscere qualcuno e dover comprendere il suo modo di esprimersi per poter dialogare meglio. C’è da dire che recentemente ho visto musicisti al primo concerto, senza prove, con un interplay incredibile. Quindi, credo sia una caratteristica che dipende tanto dalla familiarità con gli altri quanto dalla maestria del singolo musicista. Riuscire ad ascoltare con grande attenzione ciò che ci succede attorno, mentre al contempo si suona il proprio strumento, richiede molta pratica».

Guardando all’imminente futuro, che tipo di accoglienza ti aspetti dal pubblico che assisterà ai concerti di presentazione di questa tua nuova creatura discografica?

«Abbiamo già portato un po’ in giro il progetto e ho notato che la gente è contenta di ascoltare dei giovani che si divertono a suonare la propria musica. A volte mi dispiace pensare che non tutti la possano capire, magari perché è musica strumentale, ma non posso farmene un cruccio. Adesso sto cercando di organizzare altre date, però è veramente difficile riuscire a trovare nuovi concerti. Comunque, sono molto contento del lavoro che abbiamo fatto, ma vorrei incidere nuova musica prossimamente. I brani in questo disco erano relativamente “vecchi”, però volevo registrarli ugualmente. Stiamo lavorando a un nuovo repertorio che non vedo l’ora di proporre».